Condizioni di liceità della coltivazione della canapa

Principio di diritto:

“Ai sensi e per gli effetti della legge n. 242/2016 la coltivazione della cannabis è lecita, ne consegue, la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo THD inferiore allo 0.6 °A), nel senso che non potrebbero più considerarsi (ai fini giuridici), sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del D.P.R. 309 del 1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto D.P.R.”.

La cannabis:

La cannabis o canapa è un genere di piante angiosperme della famiglia delle Cannabaceae, di cui la Cannabis sativa è la più diffusa.

La struttura chimica della pianta di cannabis contiene due componenti differenti, il chemiotipo CBD (cannabidiolo), che viene utilizzato per usi agroindustriali e terapeutici, nonché il chemiotipo THC (delta-9-tetraidrocannabinolo), il quale caratterizza le varietà destinate a produrre inflorescenze con effetto stupefacente o medicamenti.

L’utilizzo della canapa è provato sin dal periodo Neolitico.

In passato, infatti, la coltivazione agricola della canapa era molto diffusa nelle zone medio-europee, per la sua facilità a crescere anche su terreni sabbiosi e zone paludose, e per la molteplicità di prodotti che se ne possono ottenere, tra i quali fibre tessili, carta, olio e mangime per gli animali da allevamento.

La marijuana:

La marijuana è costituita dalle infiorescenze delle piante femminili della cannabis contenenti il principio attivo THC, essiccate per il fumo, dalle quali si può ricavare anche una resina denominata hashish. Nelle varietà con effetti psicoattivi, la percentuale di THC può, infatti, variare dal 7% al 27%.

Excursus storico normativo:

La prima disciplina italiana degli stupefacenti si ha nel 1923 con la legge n. 396 la quale puniva il commercio di cocaina e oppiacei.

Il codice penale del 1930 ha previsto i reati in materia di stupefacenti, senza tuttavia indicare i criteri per individuare quali fossero le sostanze vietate.

Nessuna delle precedenti leggi si occupò dell’ipotesi della coltivazione.

Solo dopo che la produzione della canapa a fini industriali fu quasi scomparsa, la legge n. 685/1975 si interesso della coltivazione di essa, vietandola con riferimento alla tipologia della canapa indiana se non, previa autorizzazione “per scopi scientifici, sperimentali o didattici”.

Da ultimo con il D.P.R. n. 309/1990 è stata esclusa la coltivazione della canapa “per la produzione di fibre o altri usi industriali” dalle coltivazioni e produzioni vietate.

Quadro normativo attuale

Occorre fare riferimento da un lato D.P.R. n. 309 del 1990, intitolato “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”, ed in particolare al Titolo VIII (artt. 72-86), dedicato alla “Repressione delle attività illecite” e dall’altro alla legge n. 242 del 2016 contenete le “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”.

Secondo la motivazione della Corte di Cassazione in commento, dai contenuti dei lavori preparatori si evince che la legge n. 242 del 2016 è mossa dalla ratio di promuovere e diffondere, nel sistema produttivo italiano, l’uso della canapa (in particolare, della canapa sativa L.)”, delineando molteplici settori in cui la stessa può essere impiegata al fine di far ripartire la filiera nazionale della canapa, la cui coltivazione è considerata necessaria per un ulteriore incremento e rafforzamento del settore primario.
In questo scenario, rileva principalmente l’art. 4 della legge n. 242 del 2016, il quale  prevede che sino alla diversa misura dello 0,6% di THC, la coltivazione di canapa da semente autorizzata è conforme alla legge, con la conseguenza che il limite fissato di 0,6% è la percentuale di THC al di sotto del quale la sostanza non è considerata dalla legge come produttiva di effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti, senza tuttavia innescare automatismi nella verifica della sussistenza dell’effetto drogante.

Precedenti giurisprudenziali in senso conforme:

Tribunale di Ancona, 27/07/2018; Tribunale di Rieti 26/07/2018; Tribunale di Macerata 11/07/2018; Tribunale di Asti, 4/07/2018

Precedenti giurisprudenziali in senso difforme:

Cass. Pen. Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci; Sez. 6, n. 52003 del 10/10/2018, Moramarco; Sez. 4, n. 34332 del 13/06/2018, Durante;

secondo cui la presenza di un principio attivo sino allo 0.6% è consentita solo per i coltivatori non anche per chi commerci i prodotti derivati dalla cannabis

Ratio della decisione del Collegio:

La questione va inquadrata nel corretto rapporto fra i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, il quale considera le norme incriminatrici come tassative eccezioni (art. 14 preleggi) rispetto alla generale libertà di azione e di autodeterminazione delle persone, espressione delle basilari libertà individuali di uno stato di diritto e costituzionalmente garantite, non per scopi pubblici, bensì espressioni individuali della persona, salvi i limiti previsti dall’art. 42 Cast. per l’iniziativa economica privata.
Tanto presupposto, la questione da porsi non è se il commercio della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite, e per di più senza che sia necessaria una preventiva autorizzazione da parte della competente autorità, esuli dalla disciplina delle norme incriminatrici dettata nel D.P.R. n. 309/1990, ma se questa disciplina possa riguardare la commercializzazione di prodotti dei quali è riconosciuta la liceità.  

Non vi sono disposizioni normative che allo stato presentano contenuti che  conducano ad una tale conclusione, derivandone, pertanto, che per la risoluzione della questione in esame, vale il principio generale secondo il quale la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illeceità deve, in assenza di specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge, ritenersi consentita nell’ambito del generale potere delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi.

Inoltre, la fissazione del limite dello 0,6% di THC entro il quale l’uso delle infiorescenze della cannabis proveniente dalle coltivazioni contemplate dalla legge n. 242/2016 è lecito, appare logico e coerente, rappresentando l’esito di quello che il legislatore ha considerato un punto di equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell’ordine pubblico e le conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni.

Liceità della condotta:

“La posizione di chi sía trovato dagli organi di polizia in possesso di sostanza che risulti provenire dalla commercializzazione di prodotti delle coltivazioni previste dalla legge n. 242 del 2016 è quella di un soggetto che fruisce liberamente di un bene lecito.
Questo comporta che la percentuale dello 0,6% di THC costituisce il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non devono considerarsi psicotropi o stupefacenti secondo un significato che sia giuridicamente rilevante per il D.P.R. n. 309/1990. Questa conclusione non conduce, per altro verso, a un automatismo per il quale dal superamento dello 0,6 % di THC nella sostanza detenuta derivi immediatamente una rilevanza penale della condotta, che, invece, andrà – comunque – ricostruita e valutata secondo i vigenti parametri di applicazione del D.P.R. n. 309/1990.
Dalla piena legittimità dell’uso della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite deriva che il suo consumo non costituisce neppure illecito amministrativo ai sensi e per gli effetti dell’art. 75 D.P.R. n. 309/1990”.

Reato ex art. 73 D.P.R.:

“può configurarsi solo ed esclusivamente nell’ipotesi in cui sia dimostrata con certezza che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, comunque oggetto di cessione, è di entità tale da potere concretamente produrre un effetto drogante (ex multis: Cass. Pen., Sez. 6, n. 8393 del 22/01/2013, Ceccon i, Rv. 254857; Sez. 6, n. 6928 del 13/12/2011, dep. 2012, Choukrallah, Rv. 252036)”.

3 febbraio 2019

Avv. Elisa Cocchi

Nota: Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza n. 4920/2019

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